ODE AL PALOMBARO
Pablo Neruda
Uscì l'uomo di gomma
dai mari.
Seduto pareva
assoluto
re dell'acqua,
polipo misterioso
e pingue,
corporatura spezzata
di un'invisibile alga.
Dall'oceanico battello
scesero pescatori
cenciosi, resi lividi
dalla notte sull'oceano,
scesero reggendo
lunghi pesci fosforescenti
come fuoco voltaico,
e i ricci cadendo
ammucchiarono sulla sabbia
il fragile rancore
dei loro aculei.
L'uomo sottomarino
mise fuori le sue grosse gambe,
barcollò goffamente fra gli intestini
orrendi della pesca.
I gabbiano tagliavano
l'aria libera
con le rapide forbici,
e il palombaro
come un ubriaco camminava
sulla spiaggia,
torpido
e fosco,
non solo infoderato
nel suo abito cetaceo,
ma ancora metà mare
e metà terra,
senza sapere come
avviare gli immensi
piedi di gomma.
Lì stava nascendo.
Si staccò dal mare
come dall'utero,
innocente,
ed era confuso, debole
e selvaggio,
come un neonato.
Ogni volta
gli toccava
nascere per le acque
o per la sabbia.
Ogni giorno
calare dalla prua
nelle crudeli
correnti,
nel freddo
del Pacifico cileno,
il palombaro doveva
nascere,
farsi mostro,
ombra,
avanzare con cautela,
imparare a muoversi
con lentezza di luna
subacquea,
avere appena
pensieri d'acqua,
raccogliere le ostili
frutta, stalattiti,
o tesori
della profonda solitudine
di quei madidi
cimiteri come se raccogliesse
cavolfiori,
e quando come un globo
d'aria nera
saliva verso
la luce, verso
la sua Rosaura,
la sua Mercedes, la sua Clara,
gli era difficile
camminare,
pensare, mangiare
di nuovo.
Tutto era un ricominciare
daccapo per quell'uomo così grande
ancora incompiuto,
barcollante
fra l'oscurità
di due abissi.
Come tutte le cose
che imparai
nella mia vita,
vedendole, conoscendole,
forse imparai che fare il palombaro
è un mestiere
difficile? No!
Infinito
...
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